IL GIUDICE DI PACE 
 
    Il Giudice di  pace  di  Pordenone,  dott.  Raffaele  Vairo,  nel
processo nei confronti di Skokova  Lyubov,  nato l'8 giugno  1950  in
Ucraina,  domiciliato  presso   il   proprio   difensore   di fiducia
avv. Esmeralda  Di  Risio  del  foro  di  Pordenone,  imputato  della
contravvenzione prevista e  punita  dall'art  10-bis  del  d.lgs.  n.
286/1998 perche', straniero, si tratteneva nel territori dello  Stato
italiano in  violazione  delle  disposizioni  del  citato  d.lgs.  n.
286/1998, accertato in Pordenone,  in  data  10  settembre  2009,  ha
emesso la seguente ordinanza. 
    L'imputato e' stata rinviato  a  giudizio  per  rispondere  della
contravvenzione di cui all'art. 10-bis del d.lgs. 25 luglio 1998,  n.
286,  articolo  aggiunto  dalla  lettera  a)  del  sedicesimo   comma
dell'art. 1 della legge 15 luglio 2009, n. 94. 
    All'udienza del 28 settembre 2009 il p.m. sollevava eccezioni  di
incostituzionalita' della norma asseritamente violata, ritenendola in
contrasto con gli artt 3, 24, 25, 27 e 97 della Costituzione. 
    Osservava il p.m. che la norma,  sotto  la  rubrica  «Ingresso  e
soggiorno illegale nel territorio dello Stato, punisce, con l'ammenda
da € 5.000,00  a  10.000,00,  lo  straniero  che  fa  ingresso  o  si
trattiene  nel  territorio  dello  Stato,  in  quanto  violerebbe  le
disposizioni del d.lgs 286/1998 nonche' le  disposizioni  di  cui  al
comma 1 della legge 28 maggio 2007, n. 68 (Disciplina  del  soggiorno
di breve  durata  degli  stranieri  per  visite,  affari,  turismo  e
studio). 
    La norma, quindi, come rileva il p.m.: a) punisce,  a  titolo  di
contravvenzione e con una pena soltanto pecuniaria, l'ingresso  e  il
soggiorno illegale nel territorio dello Stato, per tale  intendendosi
quello normalmente qualificalo come clandestino, b) per  tale  reato,
secondo quanto statuisce l'ultimo inciso del primo comma  del  citato
articolo 10-bis d.lgs  n.  n.  286/1998,  e'  esclusa  l'applicazione
dell'art. 162  del  codice  penale;  c)  il  reato  in  questione  e'
sottoposto alla condizione di procedibilita' che lo straniero non sia
effettivamente espulso o respinto. 
    Ne inferiva che, trattandosi di un  reato  contravvenzionale,  la
sola  pena   pecuniaria   prevista   per   la   contravvenzione   non
costituirebbe un deterrente efficace per soggetti che sono spinti  ad
emigrare da condizioni di vita disperate, esponendo  se  stessi  e  i
propri cari a gravi pericoli. 
    Sotto il profilo processuale  la  nuova  dorma,  al  terzo  comma
stabilisce che «al procedimento penale per il reato di cui al comma 1
si applicano le disposizioni di cui agli articoli' 20-bis,  20-ter  e
32-bis del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274» e, cioe': 
        la «presentazione immediata dell'imputato al giudizio», (art.
20-bis, introdotto dalla lettera b) del comma 17 dello stesso art.  1
della legge n. 94/2009; 
        la «citazione contestuale dell'imputato  in  udienza»  quando
«ricorrono gravi e comprovate ragioni di urgenza che  non  consentono
di attendere la fissazione dell'udienza ai  sensi  del  comma  3  del
medesimo articolo» (art. 20-ter, introdotto  anch'esso-dalla  lettera
b) del 17° comma dello stesso art. 1 della legge n. 94/2009); 
        lo svolgimento del processo secondo una procedura  simile  al
giudizio direttissimo (art. 32-bis, introdotto dalla, lettera c)  del
17° comma dello stesso art 1 della legge n. 94/2009). 
    La nuova norma, sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello
processuale, appare, sempre ad avviso del p.m., in  palese  contrasto
con  i  principi  posti  dagli  artt.  3,  24,  25,  27  e  97  della
Costituzione,   per   violazione   dei   principi   di   uguaglianza,
ragionevolezza, proporzionalita' ed offensivita'. 
    Sotto il profilo sostanziale, la norma ha configurato quale reato
una mera condizione, quella di semplice irregolarita' dello straniero
che «di per se', non e' univocamente sintomatica di una pericolosita'
sociale». 
    Ulteriore elemento, ad avviso del p.m.,  sarebbe  costituito  dal
fatto che la norma punisce non solo l'ingresso irregolare,  ma  anche
lo straniero che si trattiene nel  territorio  dello  Stato  in  modo
irregolare, violando cosi' il disposto del secondo comma dell'art. 25
della Costituzione in quanto finirebbe con il punire un soggetto  per
una condotta passata, «a meno di non voler ritenere -  cosa  peraltro
anch'essa palesemente in contrasto  con  la  Costituzione  -  che  la
norma, pur non indicandolo espressamente,  ha  previsto  un  generale
obbligo di abbandonare l'Italia, immediatamente ed il  giorno  stesso
della sua entrata in vigore,  per  gli  stranieri  in  condizione  di
clandestinita'». 
    Al riguardo, sottolinea il p.m., nel d.lgs. n. 286/1998  e'  gia'
contemplata  l'ipotesi  di  reato  consistente  nel  trattenersi  nel
territorio dello Stato, allorche' lo  straniero,  nei  cui  confronti
fosse stato emesso il provvedimento del Questore contenente  l'ordine
di lasciare il territorio dello Stato,  non  vi  ottemperasse.  «Tale
ipotesi e' certamente piu' grave di quella prevista dall'art. 10-bis,
in quanto la condotta e' posta  in  essere  da  chi  ha  ricevuto  un
espresso provvedimento di  allontanamento  e  lo  viola  volutamente,
tanto vero che e' stata configurata come delitto. Per  tale  delitto,
tuttavia, e' espressamene prevista  una  causa  di  esclusione  della
configurabilita' del reato costituita dal  giustificato  motivo  che,
come ha  avuto  modo  di  precisare  tanto  la  giurisprudenza  della
Consulta quanto quella della  Cassazione,  va  individuato  in  tutte
quelle circostante concrete che  rendono  oggettivamente  inesigibile
l'ottemperanza all'ordine». 
    Altro motivo di incostituzionalita' della norma in esame  sarebbe
costituito dal disposto contenuto nell'ultimo inciso del primo  comma
10-bis del d.lgs. n. 286/1998 che  sancisce:  «Al  reato  di  cui  al
presente comma non si applica l'art. 162  del  codice  penale».  Tale
disposto  sarebbe  in  evidente  contrasto   con   l'art.   3   della
Costituzione per violazione del principio di uguaglianza davanti alla
legge. 
    Infine, la pena prevista per il reato di  clandestinita'  non  si
ispirerebbe al principio di proporzionala  e  di  ragionevolezza,  in
quanto la pena:  (a)  viene  utilizzata  pur  in  presenza  di  altri
strumenti idonei al raggiungimento dello scopo; (b) nello  specifico,
la nuova  figura  di  reato  si  sovrappone  integralmente  a  quella
dell'espulsione quale misura amministrativa. 
    Un  ulteriore  profilo  di   illegittimita'   costituzionale   in
relazione  all'art.  97  della  Costituzione  il  p.m.  ravvisa   nel
procedimento, creato ad hoc, molto simile a quello disciplinato dagli
artt. 449 e 452 c.p.p. «nonostante per  il  reato  stesso  sia  stata
prevista, come condizione di procedibilita',  la  mancata  esecuzione
dell'espulsione o del respingimento», in quanto: 
        a) la macchina giudiziaria verrebbe onerata di un  carico  di
lavoro cosi' consistente che potrebbe derivarne, in tempi  brevi,  la
paralisi degli uffici con una notevole ricaduta sui  procedimenti  di
maggiore rilevanza sociale;  
        b) il richiamo  dell'art.  345  c.p.p.,  poi,  creerebbe  una
evidentissima  ed  assurda  serie  di  procedimenti  che   potrebbero
protrarsi all'infinito: l'immigrato viene processato ed e' prosciolto
(per  non  luogo  a  procedere)  se  se  ne  va  o   viene   eseguita
l'espulsione. Ma se torna in Italia, come accade spesso, deve  essere
di nuovo processato e punito, salvo che venga  espulso  di  nuovo,  e
cosi' all'infinito; 
        c)  lo  scenario  non  muterebbe  neanche   nell'ipotesi   di
celebrazione del processo e la condanna del clandestino. 
    Il difensore dell'imputato dichiarava  di  condividere  tutte  le
eccezioni proposte dal p.m. Il Giudice si riservava. 
    A  scioglimento  della  riserva,  il  Giudice  dichiara  che   le
eccezioni proposte dal p.m., e condivise dal difensore dell'imputato,
non sono manifestamente infondate, per le ragioni che seguono. 
    Secondo  un  orientamento  dottrinale,  un   fatto   sarebbe   da
considerarsi reato quando e' previsto come tale da una norma  penale.
Quindi,  per  la  sussistenza  del  reato  sarebbe   sufficiente   la
realizzazione di un comportamento materiale corrispondente  al  fatto
enunciato  dalla  norma   incriminatrice,   indipendentemente   dalle
conseguenze che ne possano derivare, anche  nell'ipotesi  che  nessun
bene  tutelato  dall'ordinamento  sia  stato   leso   o   sia   stato
semplicemente posto in pericolo. 
    Un secondo indirizzo dottrinale, invece, ritiene che, perche'  un
fatto possa qualificarsi quale  reato,  non  e'  sufficiente  che  si
realizzi in un mero comportamento  vietato  dalla  norma  penale,  ma
occorre che esso  sia  idoneo  ad  incidere  nel  mondo  esterno  (al
soggetto agente) in modo tale da pregiudicarci (a livello di danno  o
di pericolo) un quid cui il contesto sociale  ed  il  diritto  penale
attribuiscano  un  significalo  di  valore  (bene  giuridico).   Piu'
precisamente, la teoria del reato richieda che il  fatto  incriminato
sia, oltre che tipico (principio di legalita') e colpevole (principio
di colpevolezza), anche offensivo (principio di offensivita'). 
    Pur nella  diversita'  degli  indirizzi  dottrinari,  i  giuristi
dell'uno o dell'altro indirizzo manifestano, tuttavia, la propensione
nell'individuare negli articoli 13, 21, 25, 27 della Costituzione  il
fondamento costituzionale dei principi sopra enunciati. 
    L'art. 13  Cost.  individua  nella  liberta'  personale  il  bene
supremo della persona; liberta' che puo' essere limitata con la norma
penale soltanto per tutelare beni di  pari  rango  costituzionale  da
determinate modalita' di aggressione; l'art. 25, comma 2, Cost indica
nel fatto e,  quindi,  nella  condotta  materiale  ed  offensiva,  il
comportamento punibile per legge; l'art. 27, comma 3, Cost., pone  in
evidenza la funzione educativa della pena  che  verrebbe  compromessa
nell'ipotesi di previsione di una sanzione  penale  a  carico  di  un
soggetto resosi responsabile di una mera disobbedienza, in quanto  il
soggetto che abbia commesso un fatto inoffensivo  non  riuscirebbe  a
comprendere la ragione della punizione; infine, l'art. 21 Cost.,  che
tutela la libera manifestazione del pensiero. 
    Da tanto non si discosta il p.m. che ritiene la nuova norma circa
il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello  Stato
in contrasto con i principi posti dagli artt. 3,  24,  25,  27  della
Costituzione. 
    Il principio di offensivita', cui fa riferimento il p.m.,  esige,
dunque, che,  affinche'  possa  configurarsi  un  reato,  occorre  un
comportamento che, oltre a corrispondere alla  fattispecie  descritta
dalla norma, sia colpevole ed offensivo, idoneo, cioe',  a  ledere  o
porre in pericolo un bene costituzionalmente significativo o comunque
non incompatibile con la Costituzione. In altri termini, il reato  e'
ritenuto dal  P.M.  come  un  fatto  umano  che  aggredisce  un  bene
giuridico meritevole di protezione da parte di un legislatore che  si
muove nel  quadro  dei  valori  costituzionali  (nullum  crimen  sine
iniuria), sempreche' la  misura  dell'aggressione  sia  tale  da  far
apparire inevitabile il ricorso alla pena e le sanzioni di  tipo  non
penale non siano sufficienti a garantire un'efficace tutela. 
    Nello stesso senso sembra muoversi la giurisprudenza della  Corte
Costituzionale, secondo la quale: a) «il mancato possesso del  titolo
abilitativo alla permanenza nello Stato» da parte dello straniero non
puo' considerarsi reato, in  quanto  non  e'  di  per  se'  idoneo  a
produrre una particolare peficolosita' sociale (Corte cost. 16  marzo
2007,  n.  78);  b)  la  mera  condizione  di  clandestino  non  puo'
considerarsi idonea a  porre  seriamente  in  pericolo  la  sicurezza
pubblica. 
      
    Sicche' la criminalizzazione di tale condizione  stabilita  dalla
norma in esame si rivela priva di fondamento giustificativo. 
    Il  legislatore,   quindi,   non   puo'   delineare   fattispecie
incriminatrici che prescindano dall'esistenza dell'offesa ad un  bene
giuridico, come e', invece, avvenuto con  l'introduzione  nel  nostro
ordinamento del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio
dello Stato. Del resto, il  fondamento  giuridico  di  quanto  teste'
affermato lo si rinviene, oltre che nella giurisprudenza della  Corte
costituzionale, anche nel secondo comma dell'art. 49 c.p. che esclude
la punibilita' «quando, per  la  inidoneita'  dell'azione  o  per  la
inesistenza dell'oggetto di essa, e' impossibile l'evento  dannoso  o
pericoloso». 
    Al riguardo, ad esempio, la Corte costituzionale, con la sentenza
n.  519  del  1995,  ha  dichiarato  incostituzionale  il  reato   di
mendicita',  evidenziando  che  «non  e'  conforme   al   canone   di
ragionevole e travalica i  limiti  assegnati  dalla  Costituzione  al
legislatore, il ricorso non necessitato alla tutela penale in  difesa
di beni giuridici, quali la tranquillita' e  l'ordine  pubblico,  che
non sono posti in pericolo da manifestazioni  non  invasive  di  mera
mendicita', consistenti in una semplice richiesta di aiuto». 
    Ne consegue che il concetto  di  bene  giuridico:  a)  impone  un
limite nelle scelte del legislatore; b) deve guidare  il  giudice  il
quale,  nell'interpretare  la  legge,   dovra'   preferire,   tra   i
significati che si  possono  attribuire  alla  lettera  della  legge,
quello che meglio si armonizza con il bene giuridico tutelato. 
    La norma,  poi,  oltre  alla  condotta  di  ingresso  irregolare,
punisce lo straniero che si trattiene nel territorio dello  Stato  in
modo irregolare, con cio' violando  il  secondo  comma  dell'art.  25
della Costituzione (irretroattivita' della norma penale),  in  quanto
punisce  un  soggetto  anche  per  condotte  poste  in  essere  prima
dell'entrata in vigore della legge n. 94/2009.  Il  P.M.  osserva  in
proposito che nel d.lgs. 286/1998 e' gia' prevista, nel  comma  5-ter
dell'art. 14, un'ipotesi di reato  consistente  nel  trattenersi  nel
territorio dello Stato  a  seguito  di  provvedimento  del  Questore,
sottolineando che tale ipotesi "e' certamente piu'  grave  di  quella
prevista dall'art. 10-bis, in quanto la condotta e' posta  in  essere
da chi ha ricevuto un espresso provvedimento di allontanamento  e  lo
viola volutamente, tanto vero che e' stata configurata come  delitto.
Per tale delitto, tuttavia, e' espressamente prevista  una  causa  di
esclusione  della   configurabilita'   del   reato   costituita   dal
giustificato motivo che, come ha avuto modo  di  precisare  tanto  la
giurisprudenza della Consulta  quanto  quella  della  Cassazione,  va
individuato  in  tutte  quelle  circostanze  concrete   che   rendono
oggettivamente inesigibile l'ottemperanza  all'ordine».  Nell'ipotesi
disciplinata dalla norma in esame, che e' sicuramente meno grave (sia
ontologicamente che giuridicamente, essendo  stata  configurata  come
contravvenzione punita con la sola ammenda) rispetto a quella di  cui
al comma 5 dell'art. 14, non e' prevista alcuna causa di  esclusione,
il  che  costituisce  una  ulteriore,  evidentissima  violazione  dei
principi di uguaglianza e ragionevolezza. 
    Altra  norma  sospetta  di  incostituzionalita',  per  violazione
dell'art. 3  della  Costituzione,  e'  quella  contenuta  nell'ultimo
inciso del primo comma dell'art. 1 della legge  n.  94/2009,  secondo
cui «Al reato di cui al presente comma non si applica l'art. 162  del
codice penale». Al riguardo il  giudice  osserva  che  nessuna  norma
dell'ordinamento giuridica discrimina il  cittadino  dallo  straniero
irregolare, per cui l'esclusione di quest'ultimo  dalla  possibilita'
di utilizzare l'istituto dell'oblazione, creando una sorta di  regime
speciale che riguarda un'intera categoria di soggetti (gli  stranieri
clandestini) viola il  principio  di  uguaglianza  sancito,  appunto,
dall'art. 3 della Costituzione. Il p.m.,  in  cio'  confortato  dalla
Cassazione (Cass. Pen., n. 5811/2004), ritiene  fondatamente  che  il
ricorso all'oblazione sia un un vero e proprio diritto soggettivo per
l'imputato di contravvenzione punita con la sola  pena  dell'ammenda,
con conseguente estinzione del  reato;  ebbene,  tale  diritto  viene
negato immotivatamente al migrante clandestino solo perche' tale. 
     Sotto il profilo sanzionatorio, il P.M. ha sollevato  dubbi  sui
caratteri della pena prevista per questa contravvenzione. 
    In effetti, la norma non tiene affatto conto della ratio che deve
rivestire la sanzione penale  che,  nel  rispetto  del  principio  di
proporzionalita', dev'essere utilizzata solo  in  mancanza  di  altri
strumenti idonei al raggiungimento dello scopo mentre,  nel  caso  di
specie, la nuova figura di reato si sovrappone integralmente a quella
dell'espulsione quale misura amministrativa, il che mette in luce  la
sua assoluta irragionevolezza. 
    Sotto il profilo processuale la norma sarebbe, sempre  ad  avviso
del P.M., in evidente  contrasto  con  l'art.  97  Cost.,  in  quanto
rischia di  aggravare  la  crisi  degli  uffici  giudiziari  gia'  in
situazioni di notevole precarieta' con conseguente ricaduta sul  buon
andamento dall'amministrazione della giustizia. Tanto piu'  che,  per
il reato in esame, e' stato previsto un procedimento molto  simile  a
quello disciplinato dagli artt. 449 -  452  c.p.p.,  scelta,  questa,
giudicata irrazionale dal P.M., dal  momento  che  la  competenza  e'
stata attribuita al Giudice di  Pace,  davanti  al  quale,  e'  utile
ricordarlo, l'art. 17 della legge 24 novembre 1999, n.  468,  prevede
un procedimento che si svolga con  le  massime  semplificazioni  rese
necessarie dalla competenza dello stesso giudice. 
    Effettivamente, come  e'  stato  ben  evidenziato  dalla  memoria
scritta del P.M,: 
        a) la macchina giudiziaria verra' onerata  di  un  carico  di
lavoro tale da incidere pesantemente  sul  buon  funzionamento  degli
uffici; 
        b) il richiamo all'art.  345  c.p.p.  potrebbe  causare  «una
assurda sequela di processi senza scopo  e  senza  pena»,  in  quanto
l'immigrato viene processato  ed  e'  prosciolto  (per  non  luogo  a
procedere) se se ne va o viene eseguita l'espulsione. Ma se torna  in
Italia, come accade spesso, deve essere di nuovo processato e punito,
salvo che venga espulso di nuovo, nel qual caso si fara' luogo ad una
nuova sentenza di proscioglimento che, ex art. 345 c.p.p.,  sara'  di
nuovo revocata da un successivo rientro... e cosi' all'infinito. 
    Lo scenario non cambia neanche nell'ipotesi di  celebrazione  del
processo   con   condanna   del   clandestino.   La   circolare    n.
557/LEG/240520.09/3^P, emanata dal Capo  della  Polizia  -  Direttore
Generale della Pubblica Sicurezza - del  7  agosto  2009,  avente  ad
oggetto: Legge 15  luglio  2009,  n.  94,  recante:  Disposizioni  in
materia di pubblica sicurezza, conferma:  «se  lo  straniero  rientra
illegalmente  in  Italia  prima  della  scadenza   del   divieto   di
reingresso, l'azione penale va riproposta». 
    Infatti, se esiste la possibilita' di applicare l'espulsione come
sanzione  sostitutiva,  «tale  espulsione,  tuttavia,   si   affianca
semplicemente a quella amministrativa che, anzi, come si  evince  dal
gia' ricordato meccanismo previsto dal quarto e  quinto  comma  della
nuova norma, sara' appunto quella cui normalmente si  fara'  ricorso.
Ne derivera', allora, che, di fatto, la celebrazione del processo  si
sara' limitata ad una mera esibizione di forza da parte dello  Stato,
senza,  peraltro,  aver  conseguito  risultati  ulteriori  o  diversi
rispetto a quelli gia' conseguibili con la  normativa  previgente  se
non quello, gia' evidenziato, di avere inutilmente intasato  le  Aule
dei Giudici  di  pace  e  le  Procure  della  Repubblica,  costrette,
nonostante le notorie difficolta' gia' esistenti,  ad  affrontare  un
procedimento  direttissimo  molto   rapido   ed   impegnativo   senza
prospettive di risultati concreti». 
    Quanto alla tesi dei difensori della norma in questione,  secondo
la quale  il  reato  di  clandestinita'  sarebbe  previsto  da  altre
legislazioni di Stati Europei (ad esempio Germania,  Francia  e  Gran
Bretagna),  va  chiarito  che  tale  tesi  non  tiene   conto   delle
sostanziali differenze esistenti tra i vari ordinamenti, «non  ultima
la diversita' in tema  di  obbligatorieta'  dell'azione  penale,  non
prevista generalmente nei sistemi giuridici anglossani mentre da  noi
e' consacrata nella Costituione - in  tutti  tali  Stati  non  vi  e'
alcuna sovrapposizione tra sanzione penale e sanzione  amministrativa
ed il procedimento penale garantisce un risultato non ottonibile  per
le vie amministrative come avviene, invece, nel nostro Ordinamento». 
      
    Sulla rilevanza delle questioni di legittimita' costituzionale va
precisato quanto segue. 
    La questione di legittimita' costituzionale di tali norme si pone
come una vera  e  propria  questione  pregiudiziale,  un  antecedente
logico-giuridico necessario per la  decisione  della  causa,  ed  e',
pertanto, palesemente rilevante nel giudizio in esame.